Il riflesso della controstoria: Adua di Igiaba Scego

«C’è stato un tempo,» gli aveva raccontato Hagi Safar «il tempo dei nostri antenati, in cui questa moschea era grande quanto la porzione di cielo contenuta negli occhi di un angelo»


La collana “Italiana” dell’editore Giunti continua ad essere una fucina di ottimi libri; con Adua poi, la casa editrice fiorentina ha effettuato una scelta che merita di essere evidenziata.

Igiaba Scego è una scrittrice italiana, tuttavia l’inserimento in una collana chiamata “Italiana” non è un aspetto di poco conto, perché è una scrittrice postcoloniale e a causa della scarsa maturità in Italia sull’argomento – Italia, paese in cui la cittadinanza si ottiene col principio dello ius sanguinis e proprio in questi giorni si stanno muovendo i primi, lenti passi verso lo ius soli – non è stato ancora portato a termine il dibattito riguardo alla dignità letteraria delle opere postcoloniali. Basti ricordare il fatto che fino a qualche tempo fa, questi testi venivano catalogati nella sezione “letteratura straniera”, ma oggi, finalmente, detengono l’importanza che spetta loro in quella italiana – e Adua ne è un esempio.

L’attributo “postcoloniale” connota soggetti scriventi che hanno origini da una terra che un tempo era colonia di un impero occidentale, ma è necessario sottolineare che nel periodo di massima espansione dell’imperialismo circa l’80% di terre emerse costituiva territorio colonizzato, come ricorda Ania Loomba (Colonialismo, Postcolonialismo, 2000). Da tale vastità geografica (ed effettiva) del fenomeno ne consegue che il termine “postcoloniale” descriva situazioni profondamente diverse tra loro. Per esempio, rispetto a Francia o Inghilterra, il dibattito postcoloniale in Italia è arrivato in ritardo e tutt’ora si dimostra chiuso e rallentato per una serie di fattori che ne hanno differenziato il corso:

  • è italiana la prima grande sconfitta dell’imperialismo europeo (Adua,1896);
  • è stato esiguo il numero di immigrati in Italia provenienti dalle colonie del Corno D’Africa durante la decolonizzazione, e tali flussi non hanno modificato la demografia del paese;
  • l’Italia, prima ancora che paese di immigrazione, è stato, dati alla mano, il maggior paese d’emigrazione della storia, contando in cento anni (1876-1976) circa 27 milioni di cittadini emigrati all’estero
  • ultimo ma non per importanza: vige in Italia un costante tentativo, a livello nazionale, di disfarsi delle responsabilità coloniali.

Il colonialismo in Italia è una parte di storia  rimossa dalla cultura popolare, dal sistema d’istruzione, dalla letteratura. È stato rimosso, ma non eliminato; un’amnesia storica che lascia spazio solo a qualche sporadica ricomparsa. Per esempio, nel corso del duemila è nata una corrente definita dal collettivo Wu Ming “New Italian Epic”, ovvero, parafrasando Carlo Lucarelli, un Far West  italiano:

“Abbiamo anche noi nella nostra storia un Far west che permette di raccontare metafore avventurose. L’Italia coloniale è uno dei nostri Far West […]” (C.Lucarelli).

Una parte di storia “evaporata” (utilizzando una metafora che Caterina Romeo riprende da David Theo Goldberg), poi condensata secondo canoni esotizzanti, fantasiosi, utili alla finzione e non alla Storia.

Ma contemporaneamente alla New Italian Epic c’è un folta schiera di scrittori e soprattutto scrittrici che la storia la riscrivono secondo un nuovo punto di vista: come è stato il colonialismo – e soprattutto il suo effetto – per i colonizzati? Questa è la voce degli scrittori postcoloniali che diventa sempre più forte, attuale e consapevole con le nuove generazioni.

Igiaba Scego fa parte di questa importante fase, in cui a prendere la parola sono soggetti cresciuti in Italia, sono le seconde generazioni: la loro lingua è l’italiano, “La lingua di Dante” come ama definirla Scego; La loro cultura è quella italiana, come, sempre Scego, tende più volte a sottolineare:

“Abbiamo visto l’Italia vincere i mondiali di calcio dell’82. Abbiamo fatto una sana overdose di cartoni animati giapponesi come ogni ragazzino italiano che si rispetti (da Capitan Harlock a Lady Oscar, passando per l’immancabile Lupin alla riccioluta Candy Candy), abbiamo visto anche Tiziana Rivale vincere il Festival di Sanremo, prima che scomparisse dalla circolazione.” (I. Scego, 2004).

Il loro posto è l’Italia, sebbene la controversa legge sulla cittadinanza e la diseducazione diffusa a riguardo portino spesso a formulare minacce di esclusione e soprattutto espulsione; ma dove se ne dovrebbero andare se è l’Italia il luogo in cui sono nati e/o cresciuti?
Un controsenso. Un controsenso inspiegabile ma che oggi è svelato soprattutto grazie a voci come quella di Igiaba Scego.

“Adua” è il nome della protagonista del libro. Tale nome rimanda alla prima umiliante sconfitta dei colonizzatori in terra d’Africa. Ma “Adua” è anche la prima leggendaria vittoria dei colonizzati contro l’imperialismo. Un nome che è sempre stato una sconfitta, ma oggi scopriamo che per altre prospettive – complementari – è invece un immenso giubilo.


Adua è un romanzo di 174 pagine ed ha una struttura tripartita: è diviso in trenta capitoli i quali portano sempre il nome di “Adua”, “Paternale e “Zoppe”; questi tre capitoli, in ordine, si ripetono ciclicamente per dieci volte. Alla fine, c’è un trentunesimo capitolo chiamato “Epilogo. Piazza dei Cinquecento”.

Tripartito è anche il tempo del racconto, che interessa tre epoche differenti, nelle quali sono profondamente intrecciati i destini degli italiani e dei somali: gli anni del Ventennio fascista a ridosso della campagna coloniale di metà anni ’30; il periodo di transizione dall’Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia (AFIS, 1949-1960: un mandato dell’ONU all’Italia) alla presa di potere di Siad Barre in Somalia (anni ’70); la contemporaneità, l’anno 2013 a Roma.

ADUA

Un’anziana somala che confida i suoi segreti intimi all’opera di uno dei più grandi architetti della Roma papale. È vero, è una saldatura indissolubile, quella che c’è tra Italia e Somalia

 Nei capitoli contrassegnati dal titolo “Adua”, è l’omonima protagonista a parlare, una’anziana somala residente a Roma. È sposata con Ahmed, per lei Titanic, nomignolo cinico per evidenziare il suo passato da profugo sbarcato a Lampedusa, salvato da Adua mentre consumava in via Giolitti “la bottiglia di gin scadente che comprava dal bangla, quella che lo accompagnava nelle notti fredde di Roma. Gliel’ho fatta mollare e me lo sono portato a casa, qui in via Alberto da Giussano, quartiere Pigneto.” (p. 28-29)

Il matrimonio con Titanic è una farsa, alla cui base c’è un patto non scritto: Adua regala una prospettiva di vita a un giovane senza speranza, mentre lui dona a lei una seconda giovinezza,

 “siamo in tante ormai ad aver riacquistato una seconda giovinezza con questi ragazzini sbarcati. Nessuno ci vede niente di male. La compravendita è perfetta. Loro hanno il tetto e noi un po’ d’attenzioni. Loro ci baciano e noi gli cuciamo i calzini.” (p.30)

Questo è il presente di Adua, è il 2013. Le telefonano dalla Somalia, paese in cui è “scoppiata la pace”, e l’entusiasmo travolgente ha innalzato vertiginosamente i prezzi degli immobili: la vecchia casa di Adua ha un valore enorme.

Questa situazione è in ordine cronologico l’ultima delle tre epoche che il libro affronta. L’attenzione è quindi focalizzata verso i drammi dell’immigrazione clandestina, verso le difficoltà (impossibilità?) di integrazione dei nuovi migranti, verso i drammi di una donna che capisce gli errori della propria, ingenua giovinezza. I suoi rimpianti e la rabbia verso scelte sciagurate che l’hanno portata ad essere una “vecchia flaccida”, consumata dagli stravizi degli anni passati.

Ad ascoltare Adua c’è fermo, statuario (è il caso di dirlo), il basamento di uno dei tredici obelischi di Roma: L’elefante del Bernini sito in Piazza Santa Maria Sopra Minerva. Elefantino mio, per la protagonista; è l’ascoltatore della storia, una figura munita di grandi orecchie. Quell’obelisco è il confessionale di Adua, oppure una camera di casa, come quella in cui il nonno raccontava le storie al figlio, Zoppe, il padre di Adua.

Obelisco della Minerva - Gian Lorenzo Bernini

Obelisco della Minerva – Gian Lorenzo Bernini

Un’anziana somala che confida i suoi segreti intimi all’opera di uno dei più grandi architetti della Roma papale. È vero, è una saldatura indissolubile, quella che c’è tra Italia e Somalia e deve essere raccontata, per questo è necessario che l’ascoltatore abbia orecchie grandi (come l’elefantino) ben funzionanti, necessarie ad ascoltare tutto quello che fino ad oggi è restato inascoltato.

“L’Italia era ovunque nella mia vita. L’Italia erano i baci sulla bocca, la mano nella mano, l’abbraccio appassionato. L’Italia era la libertà. E io speravo tanto che potesse diventare il mio futuro” (p.74)

Dice questo Adua, all’elefantino, sulla sua fanciullezza. Adua era un’adolescente nel periodo compreso tra l’AFIS e la dittatura di Siad Barre. L’Italia – e l’influenza occidentale in generale – era ovunque per una giovane somala e quindi dava forma anche ai suoi intimi desideri; quello più profondo di Adua era il cinema, voleva diventare come Marylin Monroe, come Audrey Hepburn e come tutte le altre divinità del grande schermo che aveva visto per la prima volta nell’unico cinema di Mogadiscio.

Proprio il cinema è stato il ponte che l’ha fatta arrivare in Italia.

Lo schiavismo non esisteva più, ma il traffico di esseri umani sì: la giovane somala era partita verso l’Italia grazie a un intermediario che le aveva confezionato documenti falsi e l’aveva impacchettata in un aereo, spedita ad una produzione cinematografica; termini così materiali non sono scelti a caso, perché il ruolo che toccava ad Adua nel cinema consisteva nella cosificazione del suo corpo affinché diventasse un prodotto adeguato per il filone erotico di film tanto amato dal pubblico italiano negli anni ’70-’80.

“Ha visto le mie corse nuda sulla spiaggia dorata di Capocotta, ha visto quando Aldo de Luigi mi metteva le mani sul culo, ha visto mentre amoreggiavo con Nick Tonno sul sedile di una Chrysler del ’53 e ha visto anche l’aspetto del mio pelo pubico di allora.” (p.90)

Questo è il ruolo che il cinema italiano offriva ad Adua. Lei aspettava il copione, il camerino con su scritto il suo nome, i meriti e il successo, invece la sua voce era doppiata, non aveva nulla di riservato, non riceveva alcun beneficio e veniva schiavizzata e maltrattata dalla perversione del regista e di sua moglie.

Adua doveva fare la venere nera, ruolo reintrodotto nell’immaginario cinematografico erotico degli anni ’70 – quello della venere nera è un mito molto più datato, introdotto a fine ‘800, ma tornato in voga proprio in quel periodo.

C’è un saggio di Rosetta Giuliani Caponetto contenuto in L’Italia postcoloniale (Cristina Lombardi-Diop, Caterina Romeo [a cura di], Le Monnier Università 2014) che analizza come l’immaginario della venere nera coloniale venga rimesso in circolazione nei film erotici degli anni ’70; l’autrice del saggio, inoltre, individua la funzione della venere nera personificata soprattutto nell’attrice topmodel eritrea Zeudi Araya, protagonista di una trilogia erotica del regista Luigi Scattini. Secondo Caponetto, il ritorno della venere nera nell’immaginario collettivo italiano mediante film erotici (quelli di Nadia Cassini, Laura Antonelli, Edwige Fenech ecc…) a partire dagli anni ’70 era un ulteriore ostacolo alle femministe italiane:

“Quanto più accanita si faceva la lotta delle femministe italiane, tanto più grossolani diventavano i film e volgari i titoli.” (Caponetto, p.182)

Il ruolo di Zeudi Araya era infatti privo di identità, di autonomia, “Zeudi Araya interpretava costantemente il ruolo di seduttrice seminuda senza armi. […] si poneva come un modello di femminilità alternativo, diverso soprattutto da quello della donna-terrorista degli anni Settanta.” (Caponetto, p.184)

E questo era il ruolo affidato a Adua.

Il suo desiderio si era materializzato, era un’attrice, un’attrice muta e continuamente stuprata. Voleva diventare Marylin, ma l’unico elemento in comune che con lei avesse potuto avere, sarebbe stato il triste, tragico epilogo. Neanche qui – fortunatamente – Adua è riuscita ad emulare la superstar di Los Angeles.

Adua ha superato le sue difficoltà, e ora vive a Roma, senza mai aver provato amore, sentimento a cui il padre le ha sempre negato l’accesso.

PATERNALE

Le sezioni Paternale sono dei monoliti incastonati tra i due nuclei narrativi Adua e Zoppe e consistono appunto in una paternale che Zoppe, padre di Adua, rivolge contro sua figlia. Sono violenti ammonimenti, spesso coloriti da un’apparente premura da parte dell’uomo nei confronti della figlia.

Degno di nota è il capitolo 17, brevissimo racconto in cui Zoppe consola la figlia appena dopo l’infibulazione, pratica della cultura patriarcale somala.

Restando sul tema dell’infibulazione, un’altra scena altrettanto toccante, è il momento in cui Adua, ubriaca, viene messa alla prova dal suo regista, il quale scopre gli effetti della mutilazione genitale, ma come se nulla fosse, prende le forbici. L’oltraggio dopo l’oltraggio.

ZOPPE

la scrittrice ci narra la guerra coloniale tramite l’incubo visionario di un somalo.

 Zoppe nel 1934 si trovava in Italia. Conosceva tutti i dialetti dell’Africa Orientale ed era utile a Roma per i preparativi all’imminente campagna coloniale intrapresa da Mussolini.

La traduzione era il motivo per cui ancora Zoppe non era caduto sotto i soprusi degli italiani e fu il motivo per cui era tornato in Somalia: divenne un protetto del Conte Anselmi, un gerarca fascista approdato nel Corno per sondare il territorio che di lì a poco sarebbe stato invaso. Ma poi, proprio la sua capacità di tradurre, è stata messa a disposizione per sancire un patto che significava morte per molte altre persone.

Questi capitoli sono quelli in cui Igiaba Scego narra che cosa è stato il colonialismo mussoliniano per un colonizzato.

Zoppe conosce molti dialetti, virtù che lo rende un nero privilegiato, perché utile al regime: attenzione, il privilegio di cui gode consiste solo nel fatto di non essere ucciso: unico vantaggio che aveva rispetto a tanti suoi connazionali.

Non gli si prospetta la morte, a Zoppe, ma deve assaporare una serie di traumi corporali ed interiori: vive un costante incubo, sia da desto che nel sonno.

Zoppe ha poteri magici, i membri della sua famiglia sono in grado di predire il futuro e anche lui ha in sé la capacità di vedere gli eventi prossimi; siamo a ridosso dell’invasione italiana, ma Zoppe già in sogno vede l’arrivo delle truppe di Mussolini: un miscuglio onirico di morti, di sangue, di distruzione e violenza, racchiuso in una nube velenosa – preveggenza dei gas utilizzati dagli italiani.

Con questa trovata interessante Igiaba Scego filtra all’estremo l’esperienza coloniale attraverso le lenti di un colonizzato: la scrittrice ci narra la guerra coloniale tramite l’incubo visionario di un somalo.


Adua di Igiaba Scego e le produzioni letterarie postcoloniali evidenziano la saldatura indissolubile che c’è tra Italia e le sue ex-colonie, in questo caso la Somalia in particolare. L’Italia come incubo, l’Italia come desiderio, l’Italia come quotidianità.

La questione postcoloniale è un nodo cruciale della società contemporanea e oggi finalmente, come sottolineano più volte Romeo e Lombardi-Diop, il dibattito postcoloniale articolato in Italia, riguarda proprio l’Italia; un aspetto che sembra scontato ma non lo è, perché quando tra la fine degli anni Novanta e i primi del Duemila gli studi postcoloniali arrivarono nelle università italiane, essi erano discussi nei dipartimenti di anglistica e riguardavano la situazione britannica. Ma grazie alla costante ricerca degli studiosi postocoloniali in Italia, oggi si è giunti a leggere e analizzare il nostro paese nella sua condizione postcoloniale. (S.Mezzadra).

Si aggiunga, poi, che la voce delle seconde generazioni si fa sempre più forte e rende possibile rivedere la Storia osservata da punti di vista che restituiscono prospettive rimosse e troppo a lungo rimaste nascoste, evaporate.

Adua è un ottimo libro: narrazione che non è solo storytelling, ma assume anche valore civile, sociale; lingua originale, studiata e ricercata, che si muove attraverso registri differenti, lingue storiche diverse (la narrazione è costellata di termini somali), una lingua multitasking che l’autrice definisce in-between; Adua è un libro che contiene in sé importanti testimonianze storiche, sebbene – come spiega nei ringraziamenti – non era scopo dell’autrice una minuziosa ricostruzione storica, perché in primis ci devono essere le percezioni, le emozioni e le sfumature dei protagonisti.

Sostengo che il libro soddisfi entrambi questi frangenti: Igiaba Scego non scende nei dettagli, ma offre comunque uno spaccato della storia d’Italia, quindi offre un’opportunità di conoscenza e lo fa riuscendo nel suo scopo, ovvero quello di “trasformare gli eventi storici in emozioni, visioni, vissuti”. Questa è Letteratura.

“Lunga vita agli elefanti”


Note:

  • Le informazioni sugli studi postcoloniali cui faccio menzione, provengono da il già citato – e consigliato – manuale “L’Italia postcoloniale” e dai corsi di Caterina Romeo, docente presso l’Università di Roma La Sapienza, che tengo a ringraziare anche per la realizzazione di questo articolo.
  • Per approfondimenti su Adua, segnalo questa video-intervista dell’autrice
  • Sulle seconde generazioni, segnalo quest’articolo di Igiaba Scego
  • Per informazioni sul postcolonialismo in Italia, riporto questo saggio online in pdf di Sandra Ponzanesi


Di Luca Montesi

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